lunedì 9 ottobre 2017

Perché la Catalogna se ne vuole andare


NOTA di Giancarlo Pagliarini RICEVIAMO E VOLENTIERI PUBBLICHIAMO
Buongiorno.

Questa settimana sarà cruciale per Catalogna e Spagna.

Il primo di Ottobre ho partecipato al referendum della Catalogna come “osservatore internazionale” . Nella circostanza ho avuto anche modo di discutere con membri del loro Parlamento, sia di maggioranza, che di opposizione, ed ho avuto la conferma che il momento d’inizio di tutto quello che sta succedendo in questi giorni  è il 28 giugno 2010.

In breve:

*        Dal 1978 esistono in Spagna 17 Comunità autonome. Sono previste dal Titolo VIII della Costituzione del 1978, con la quale era stato disegnato un ordinamento di tipo regionale dopo il  centralismo del periodo della dittatura franchista.         

*        Nel 1979, quattro anni dopo la morte di Franco, era stato approvato anche  lo Statuto della Catalogna

*        Per poco meno di 30 anni, dal 1979 al 2006,  in Catalogna si è lavorato  per migliorare quel testo. Nel 2006 il Parlamento Catalano , con il voto favorevole di 120 membri su 135, aveva presentato il testo di un nuovo Statuto al governo di Madrid.

*        Le due Camere del Parlamento Spagnolo lo avevano esaminato, emendato e approvato. Mariano Rajoy era all’opposizione

*        Dopo l’approvazione di Madrid il 18 Giugno 2006 quel testo era stato approvato con referendum dal popolo Catalano. I voti favorevoli erano stati del 73,9%, e il re lo aveva firmato.

*        Tutto a posto? Purtroppo no: Mariano Rajoy va al governo, vengono raccolte delle firme e il 28 Giugno 2010 la corte costituzionale riscrive 14 articoli e cambia l’interpretazione di altri 27  articoli di quello  Statuto che era stato approvato quattro anni prima dal Parlamento Spagnolo

*        Se la corte costituzionale non avesse disatteso, dopo quattro anni, la decisione del Parlamento Spagnolo adesso la situazione sarebbe diversa. Jacopo Rosatelli ha scritto sul Manifesto dell’8 Ottobre che  “la separazione dal resto della Spagna era un’opzione difesa da settori ultra-minoritari”. La sentenza della corte costituzionale del 28 Giugno 2010 ha quadruplicato il numero dei secessionisti e gli interventi e le botte dispensate dalla  Guardia Civile l’1 Ottobre hanno fatto crescere il loro numero al 70-80%  stimato in questi giorni. Per la cronaca, tutti i “secessionisti” con cui ho discusso non mi hanno parlato di tasse o di economia: la parola più ripetuta era “dignità”.

 

Le allego  un articolo che ho appena pubblicato su questo argomento.

 

Con viva cordialità





Perché la Catalogna se ne vuole
andare
Ecco la lunga storia del rapporto tormentato tra
Barcellona e Madrid, tra richieste di autodeterminazione
e protervia centralista. Fino alla data chiave del 28
giugno 2010, quando la Corte Costituzionale annulla
anche lo Statuto di Autonomia. È lo strappo finale, e
l'esito ultimo è il referendum...
di Giancarlo Pagliarini

In questi giorni la Catalonia è sulle prime pagine di tutti i giornali. Domenica 1 Ottobre in Catalonia
è stata scritta una importantissima pagina di storia. Vediamo come si è arrivati al referendum,
anche perché non tutti sanno che “è tutta colpa del 28 Giugno 2010”.
1) Nel 1931 era stata proclamata la Repubblica Catalana all’interno della Federazione iberica. Lo
ricordo perché mi da molto fastidio leggere che i Catalani adesso vogliono la secessione perché sono
ricchi e non vogliono mantenere i territori più poveri. È una sciocchezza.
2) Quella autoproclamazione preoccupò il governo provvisorio della nuova Seconda Repubblica
Spagnola. Quei signori erano meno (autocensura) di Mariano Rajoy e del re Filippo VI e
mandarono a Barcellona tre ministri con il compito di trovare una mediazione. Fu così che nacque la
Generalitat de Catalunya, dotata forme di autonomia
3) Ometto il resto. Conclusa la Guerra civile spagnola nel 1939, la dittatura militare abrogò le
istituzioni catalane, più di 200 mila andarono in esilio, il Presidente della Catalonia Lluis Companys
venne giustiziato, venne perfino vietato l’uso della lingua catalana eccetera eccetera. In pratica
da quel momento in Catalonia dovevi avere il permesso di Madrid anche per respirare.
4) Nel Dicembre 1978 si approva la nuova Costituzione e il regime franchista si converte in una
monarchia parlamentare. Silvia Ragusa scrive su Linkiesta del 2 Ottobre 2017: “… il primo ottobre
non ha a che fare solo con un referendum per l’indipendenza: la Catalogna si ribella contro un partito
popolare che in quegli anni agglutinava ex dirigenti franchisti,…. In quarant’anni di democrazia,
nessun politico, né del partito popolare, né del partito socialista, si è mai interrogato su alcune
questioni chiave per la democrazia spagnola: indire un referendum che tasti il polso delle
preferenze attuali tra una monarchia o una repubblica; abbattere el Valle de los Caídos, dove ancora
oggi giace preservato il dittatore….”
5) Lo Statuto di autonomia della Catalonia è del 1979. Ma non piace ai Catalani, non è rispettato
dallo stato centrale e non identifica le caratteristiche e la diversità della Catalonia all’interno
di una Spagna pluralistica
6) Elezioni del 2003: l’88% degli eletti nel parlamento della Catalonia sono a favore di un nuovo
Perché la Catalogna se ne vuole andare - L'intraprendente | L'intraprendente 06/10/17, 21)27
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Statuto di autonomia che sostituisca quello del 1979. Zapatero si impegna a supportare il nuovo
Statuto che la Catalonia dovrà presentare al Parlamento di Madrid per la sua approvazione.
7) Settembre 2005. Il parlamento Catalano approva il nuovo Statuto di autonomia con 120 voti a
favore su 135 e lo presenta a Madrid. Le leggi che tanto piacciono a Mariano Rajoy e al re prevedono 1)
che il documento deve essere approvato dal parlamento di Madrid e 2) che dopo dovrà essere
approvato dai cittadini catalani con un referendum
8) Maggio 2006. Le due camere del Parlamento spagnolo approvano il nuovo Statuto di autonomia
della Catalonia, dopo averlo significativamente modificato, riducendo le libertà e la dignità della
Catalonia.
9) Giugno 2006. In Catalonia Zapatero viene criticato per non aver mantenuto le promesse
fatte nel 2003 (vedi il precedente punto 6). Il testo emendato uscito dal Parlamento di Madrid viene
comunque approvato dai cittadini col referendum del 18 Giugno 2006. Il re firma il testo che diventa
una legge ufficiale dello stato spagnolo. In quel testo la Catalonia è riconosciuta come una
“nazione” all’interno dello stato spagnolo.
10) Tutto a posto dunque? Nemmeno per sogno, perché dopo quattro anni, il 28 Giugno 2010, la
corte costituzionale, con una maggioranza di 6 membri contro 4, riscrive 14 articoli dello Statuto
di autonomia (approvato 4 anni prima dal Parlamento di Madrid ed approvato dai cittadini con
referendum!) e reinterpreta altri 27 articoli. La parola “nazione” viene cancellata. Quello che sta
succedendo in questi giorni è stato deciso da 10 signori seduti in una stanza con le porte
chiuse: incredibile! Questo perché Mariano Rajoy (a mio modesto giudizio in pieno accordo col re)
aveva cominciato subito, nel 2006, a raccogliere firme e a lavorare perché lo Statuto di Autonomia
approvato dal parlamento di Madrid fosse “assassinato”. Ci è riuscito. Ed è riuscito anche a
quadruplicare il numero degli indipendentisti Catalani.
11) Alla “Diada” dell’11 Settembre 2012 più di 1,5 milioni di cittadini protesta contro la decisione dei
dieci giudici della corte costituzionale. Come reazione alla assurda decisione di “uccidere” lo Statuto di
Autonomia si grida che la Catalonia sarà un prossimo stato membro dell’Unione Europea. Il
governo di Madrid e il re non fanno una piega, continuano a non capire niente dei Catalani.
12) Novembre 2012. Elezioni in Catalonia. 107 membri del Parlamento su 135 , a questo punto ,
anche sulla base del comportamento di Madrid, sono a favore di un referendum per l’indipendenza.
13) Marzo 2013. Il Parlamento Catalano chiede al Presidente Artur Mas di negoziare col governo di
Madrid lo svolgimento di un referendum per l’autodeterminazione della Catalonia. Il re non parla (e
in Catalonia cominciano a chiamarlo il “desaparecido”) e da Madrid arrivano solo dei no
14) Diada dell’11 Settembre 2013: una catena umana di 400 km dal nord al sud della Catalonia chiede
l’indipendenza. Da Madrid niente.
15) Gennaio 2014. Il Parlamento della Catalonia chiede formalmente al governo di Madrid di
trasferire a Barcellona i poteri necessari per organizzare un referendum sulla indipendenza, come
Westminster aveva appena fatto con la Scozia. Questa richiesta formale è stata ormai avanzata
18 volte. Diciotto!
16) Diada dell’11 Settembre 2014. È la Diada numero 300. Tutto era cominciato nel 1714. I discorsi
ufficiali si fanno alle 17 e 14 del pomeriggio. Alla Diada partecipano 1,8 milioni di cittadini. Di tutta
Europa. Con i colori giallo e rosso della magliette si forma a Barcellona una enorme V , che sta per
VOTO“. Il vertice è nella nuova piazza de las Glories e le due gambe sono lungo la Diagonal e lungo
la Gran Via. Da Madrid sempre niente.
17) 19 Settembre 2014. A differenza di Londra Madrid continua a non dare il permesso. Assurdo! E
allora il Parlamento Catalano decide di “consultare i cittadini”. Il 27 Settembre il Presidente Artur
Mas firma il decreto per la consultazione, che avverrà il 9 Novembre
18) 29 Settembre 2014: solo due giorni dopo la firma, ecco che la corte costituzionale interviene e
sospende temporaneamente anche la consultazione popolare decisa dal Parlamento
Catalano
19) 4 Ottobre 2014. 920 sindaci, su un totale di 947, vanno a Barcellona e chiedono di effettuare la
“consultazione popolare” fissata per il 9 Novembre
20) 14 Ottobre 2014. La corte costituzionale sospende temporaneamente la “consultazione popolare”?
Va bene, nessun problema, scatta il piano B. Invece di chiamarla “consultazione popolare” si decide di
chiamarla ” partecipazione dei cittadini alle decisioni” , una procedura prevista dallo Statuto di
Autonomia , quello decapitato dalla corte costituzionale il 28 Giugno 2010.
21) 4 Novembre 2014. Naturalmente la corte costituzionale sospende anche il referendum per la
“partecipazione dei cittadini alle decisioni”. Ma di cosa hanno paura? Perché continuano a impedire
ai cittadini di dire come la pensano?
22) La corte continua a bloccare tutto? Ma a Madrid non sanno di che pasta sono fatti i Catalani. In
tempo reale ecco che molte organizzazioni non governativo (NGO: non governamental
organizations) saltano fuori e sono loro che organizzano il referendum
23) 9 Novembre 2014. Si svolge il referendum . Votano più di 2,3 milioni di cittadini, con questi
risultati: 80,76% vuole l’indipendenza. 4,54% non vuole cambiare niente. 10,07% vuole cambiare
ma non necessariamente con un processo di indipendenza. Il resto sono schede nulle
24) 12 Novembre 2014. Questa volta Madrid non sta zitta. Rajoy dice che quello del 9 Novembre non
era stato un voto democratico ma un atto di propaganda politica. Avevano votato in 2,3 milioni ma
questa non sembra sia una informazione importante.
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25) 21 Novembre 2014. Lo stato spagnolo incrimina
il Presidente Mas , due dei suoi ministri e alcuni
funzionari perché non hanno bloccato il referendum e per
altri delitti.
26) 27 Settembre 2015. Si decide di fare nuove elezioni in
Catalonia. I partiti che dichiarano di volere
l’indipendenza prendono il 47,8% dei voti, e il 13,1% va a
partiti a favore del principio di “autodeterminazione”. In
totale 60,9%. Gli “unionisti” con Madrid raccolgono il
39,1%
27) Marzo 2017. L’ex Presidente Artur Mas viene
formalmente condannato per il referendum del 9
Novembre 2014. Sono in corso altri 400 processi per gli
stessi “delitti” : voler far votare i cittadini e cose
del genere.
28) 22 Maggio 2017. Il Governo della Catalonia ( il
Presidente Puigdemont, il vice Presidente Junqueras e il
ministro degli esteri Romeva) va ancora formalmente a
Madrid a chiedere di poter far parlare i cittadini. Di
poterli fare votare. Nel giro di 24 ore Rajoy risponde che
non ci sarà nessun referendum.
29) 9 Giugno 2017. A questo punto Carles Puigdemont, che è il Presidente della Catalonia dal 10
Gennaio 2016 , annuncia che i cittadini Catalani devono poter votare. Si svolgerà un Referendum e la
domanda sarà “Vuoi che la Catalonia diventi una Repubblica indipendente?
30) Il Parlamento della Catalonia approva la legge sul referendum del 1 Ottobre 2017. È la legge
numero 19/2017. Sono 34 articoli. L’articolo 1 fa riferimento ai diritti civili e politici, economici,
sociali e culturali approvati dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 19 Dicembre
1966. L’articolo 4 prevede (comma 4) che, se vinceranno i “SI” “dins els dos dies següents a la
proclamació dels resultats oficials per la Sindicatura Electoral, celebrarà una sessió ordinària per
efectuar la declaració formal de la independència de Catalunya, concretar els seus efectes i iniciar el
procés constituent”. Il comma 5 invece prevede nuove elezioni se vinceranno i “NO”. Sappiamo che
hanno stravinto i “SI” e quindi probabilmente lunedì il Parlamento proclamerà formalmente
l’indipendenza della Catalonia. Vedremo cosa succederà, senza dimenticare la (assurda!) sentenza
della corte costituzionale del 28 Giugno 2010


domenica 1 ottobre 2017

Macron alla Sorbona: il rilancio del progetto europeo



  • Il discorso alla Sorbona di Emmanuel Macron irrompe sulla scena europea con una forza inaspettata. Sono potenti le sue parole (Il solo modo per garantire il nostro avvenire è la rifondazione di un’Europa sovrana, unita, democratica), soprattutto espresse da un presidente francese - che ben conosce il valore del termine “sovranità” –, ma ancor di più è potente la sua volontà  di ribaltare il quadro politico e psicologico nel quale affrontare il rilancio dell’Europa, proponendo un cammino di riforma dell’Unione europea completamente al di fuori degli schemi attuali, indicando un’agenda ed un metodo che avrà al centro “il gruppo dei paesi che si impegnano per la rifondazione europea”.
  • Colpisce il coraggio di Macron, che sceglie –  pur nella ricchezza delle sue proposte operative –  di evidenziare innanzitutto, come già Monnet e Schuman, l’esigenza di un salto di qualità nell’affrontare la questione europea
  • Macron ha lanciato questa battaglia, ma i suoi esiti, e anche i contenuti di cui si riempirà effettivamente, dipendono in larga parte da tutti gli altri attori che hanno un ruolo nel processo europeo: gli altri governi, il Parlamento europeo, le forze politiche e sociali.
 
Il discorso alla Sorbona di Emmanuel Macron irrompe sulla scena europea con una forza inaspettata. Sono potenti le sue parole (Il solo modo per garantire il nostro avvenire è la rifondazione di un’Europa sovrana, unita, democratica), soprattutto espresse da un presidente francese - che ben conosce il valore del termine “sovranità” –, ma ancor di più è potente la sua volontà di ribaltare il quadro politico e psicologico nel quale affrontare il rilancio dell’Europa, proponendo un cammino di riforma dell’Unione europea completamente al di fuori degli schemi attuali, indicando un’agenda ed un metodo che avrà al centro “il gruppo dei paesi che si impegnano per la rifondazione europea”.
Colpisce il coraggio di Macron, che sceglie –  pur nella ricchezza delle sue proposte operative –  d i evidenziare innanzitutto, come già Monnet e Schuman, l’esigenza di un salto di qualità nell’affrontare la questione europea. Sono ormai 5 anni – dal 2012, da quando il Blueprint della Commissione europea e il Rapporto dei 4 Presidenti hanno chiarito la necessità di rimediare all’insostenibilità di un’Unione monetaria costruita senza un’unione bancaria, fiscale, economica e politica – che la sfida della riforma dell’Eurozona e dell’UE attende inutilmente di essere affrontata. A questo immobilismo hanno contribuito tanti fattori, tra cui le debolezze francesi e la sfiducia tedesca – e di tutti i paesi del Nord – verso i propri partner; ma sicuramente molto ha contribuito anche la mancanza di una visione coraggiosa, in grado di far fare uno scatto al processo europeo e di portarlo fuori delle secche dei veti nazionali incrociati. Macron ha proposto esattamente questo, e per fa rlo ha infranto molti tabù: non solo ha offerto un progetto – forte sul piano ideale, ma al tempo stesso concreto e pragmatico –; ma, nel parlare di rifondare il quadro europeo, ha negato quello che è  diventato quasi un dogma nell’UE, ossia che sia possibile portare l’Unione europea ad essere all’altezza dei suoi compiti senza compiere un atto politico di discontinuità con i suoi attuali meccanismi; e soprattutto ha indicato un percorso (di cui ha dettato tappe e tempi) che mira a rivoluzionare gli attuali equilibri istituzionali, chiarendo cosa deve intendersi per integrazioni differenziate nel quadro dell’Unione e indicando quali devono essere le iniziative del gruppo di avanguardia.
In questo modo Macron spiazza la Germania e le stesse istituzioni europee, disegnando un percorso in cui fare l’Europa torna ad essere la priorità della classe politica europea e non una battaglia difensiva dell&rs qu o;esistente, destinata alla sconfitta. Sicuramente i risultati delle elezioni tedesche, e l’indebolimento della Merkel, hanno ulteriormente convinto il Presidente francese della necessità di una mossa audace, per rilanciare la posta e non rischiare di trovarsi impantanato in un Consiglio europeo tenuto in scacco dalle tensioni interne alla Germania, e dall’effetto domino che queste hanno sui paesi del Nord e sulla stessa Commissione europea. Avendo giocato di anticipo, Macron costringe così Berlino, qualunque governo si vada a formare, a confrontarsi con proposte che hanno l’astuzia di partire da progetti operativi in tutti i settori cruciali, e a cui pertanto è difficile dire di no, soprattutto nel momento in cui è la Francia a proporli e a promuoverli. Anche gli aggiustamenti istituzionali (inclusa la riforma dei Trattati), inevitabili e indispensabili per procedere, diventano così molto più accettabili, perché si i ns eriscono nel quadro di un approfondimento dell’integrazione in tutti i settori chiave e sono parte di un disegno politico elaborato collettivamente e condiviso; inoltre sono definiti in modo molto più chiaro di quanto non sia stato fatto sinora, anche perché l’idea delle convenzioni democratiche permette di delineare concretamente il percorso costituente.
E’ chiaro che il processo è solo all’inizio, e che gli ostacoli da superare sono immensi. Queste proposte saranno viste con sospetto a Bruxelles, perché di fatto scavalcano le istituzioni europee – e per questo anche molti europeisti le vedranno soltanto come un ennesimo tentativo intergovernativo di preservare il ruolo dei governi; saranno boicottate dai paesi che sono contrari “ad un’Europa sovrana, unita e democratica”; e, soprattutto, rischiano di fare molta paura a Berlino. Il fatto è che Macron ha lanciato questa battaglia, ma i suoi esiti, e anche i contenuti di cui si riempirà effettivamente, dipendono in larga parte da tutti gli altri attori che hanno un ruolo nel processo europeo: gli altri governi, il Parlamento europeo, le forze politiche e sociali.
Il MFE intende raccogliere sin da ora questa sfida. Con la sua Campagna per la Federazione europea cercherà di contribuire a tutti i livelli alla realizzazione di questo percorso di rifondazione dell’Unione europea, sostenendo e promuovendo i contenuti e la visione federale, perché l’Europa sovrana, unita e democratica sia l’Europa federale dei Padri fondatori.


sabato 30 settembre 2017

Se Zaia e Maroni provano a fare i catalani


Il 22 ottobre Lombardia e Veneto sono chiamate a un referendum sull'autonomia. Ecco come funziona e qual è la vera posta in gioco
Lombardia e Veneto rischiano di staccarsi dall’Italia, come la Catalogna? La notizia, direbbe Flaiano, è grave ma non seria. A sentire la propaganda leghista (una propaganda dai toni tutto sommato sommessi, non certo gridata, poi spiegheremo perché) e a leggere i quesiti dei referendum per cui i lombardi e i veneti (in tutto 16 milioni) sono chiamati a votare il prossimo 22 ottobre sembrerebbe di stare a un passo dalla separazione, con Milano e Venezia pronte a seguire il destino di Barcellona. La cosa, diciamolo con franchezza, avverrebbe peraltro un po’  a sorpresa, dentro un’Italia in ben altre faccende affaccendate: la crisi economica, la gestione dei flussi migratori, il lavoro, le tasse, la scuola etc. Ed ecco che arriva tra capo e collo un referendum sull’autonomia, nelle due regioni economicamente più forti.
Tranquilli, Gentiloni non manderà forze speciali in Piazza Duomo e in Piazza San Marco per fermare i referendum autonomisti, come ha fatto Rajoy con la Guardia Civil. In realtà il 23 ottobre non cambierà nulla anche se vince il sì. Si tratta infatti di due referendum consultivi. Li hanno indetti due presidenti di Regione leghisti, Roberto Maroni per la Lombardia e Luca Zaia per il Veneto, con il sostegno di tutto il Centrodestra, ma anche il voto decisivo del Movimento Cinque Stelle e perfino numerosi sindaci e amministratori locali del Pd, che pure è il partito di governo, in un ormai non raro caso di mimetizzazione politica. Non è infatti la prima volta che il Pd al Nord fa il verso alla Lega, nel tentativo di fare il pesce in barile.

Il quesito referendario lombardo è meno secco di quello veneto. A leggerlo ci vogliono più di 30 secondi e una certa pazienza: “Volete voi che la Regione Lombardia, in considerazione della sua specialità, nel quadro dell’unità nazionale, intraprenda le iniziative istituzionali necessarie per richiedere allo Stato l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, con le relative risorse, ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 116, terzo comma, della Costituzione e con riferimento a ogni materia legislativa per cui tale procedimento sia ammesso in base all’articolo richiamato?”. Ma chi andrà a votare saprà già che deve scrivere “sì” per l’autonomia e “no” perché tutto resti come prima. In realtà queste due Regioni potrebbero già intavolare una trattativa con lo Stato sulla base dell’articolo 116 della Costituzione per ottenere più poteri sulle materie di competenza (le cosiddette materie “concorrenti”, sono quelle elencate nell’articolo 117 della Carta italiana: giudici di pace, ambiente, istruzione, finanza pubblica e del sistema tributario ecc.). L’intesa fra Stato Italiano e Regione, se arrivasse, dovrebbe poi essere ratificata con una legge che ha un iter lungo e appositamente “blindato”. Perché nonostante la parola “federalismo” sia stata una parola molto pronunciata e molto in voga nella Seconda Repubblica, nei fatti, se andiamo sotto la superficie dei proclami, lo Stato non ha mai arretrato di un centimetro.
Naturalmente i governatori di Lombardia e Regione contano sul significato “politico” di una vittoria del sì. In pratica si presenterebbero di fronte al Governo per intavolare una trattativa forti del consenso dei lombardi e dei veneti.Quel che conta, per i governatori del Nord, è il quorum ("è arrivato il momento di contarci", ha proclamato ad esempio Zaia). Vi è poi il vecchio trucco che tutti i politici conoscono: quello di attribuirsi i consensi del referendum come se fossero voti al partito (Pannella era uno specialista nell'attribuire al Partito radicale gli esisti del referendum). Dunque l’affluenza sarà determinante. Chi è contro l’autonomia può andare alle urne e votare no, ma forse ha più convenienza a stare a casa per rendere il più possibile insignificante il voto referendario.
 Il problema è che l’Italia ha altri 44 milioni di abitanti, non certo felici di veder andar via le due Regioni più forti economicamente, i cui trasferimenti allo Stato sono maggiori delle tasse che ricevono. Tra l’altro il referendum giunge proprio quando il leader della Lega Nord Salvini dopo Pontida ha abbandonato le rivendicazioni autonomiste e federaliste per lanciare una Lega “blu” nazionalista estesa al Centro e al Nord, il cui collante è costituito non dqall'autonomia ma dalla stop ai flussi immigratori. Come conciliare le rivendicazioni autonomiste della Lega del Nord con le prerogative della potenziale Lega italiana, alleata anche con la destra nazionalista? La politica, si dice, è l'arte della combinazione degli opposti. Ma in questo caso forse qualche problema c'è.




Francesco Anfossi f_anfossi
Lombardia e Veneto 

Ad Avellino Roberto Sommella, esperto di finanza e di politiche europee


Ad Avellino Roberto Sommella, esperto di finanza e di politiche europee
Sabato al Godot Art Bistrot, l’incontro promosso dalla Gioventù federalista europea, «Periferie. Nuova strada verso l’Europa»


Ad Avellino Roberto Sommella, esperto di finanza e di politiche europee

Sabato 30 settembre, alle ore 18, al Godot Art Bistrot in via Mazas ad AvellinoRoberto Sommella, giornalista economico esperto di finanza pubblica e di politiche europee, e Antonio Argenziano, segretario nazionale della Gioventù federalista europea, discutono di «Periferie. Nuova strada verso l’Europa», modera Leonardo Festa. 
Si tratta del primo di una serie di incontri promossi dalla sezione di Avellino della Gioventù federalista europea per tentare di sensibilizzare l’opinione pubblica a tematiche di stringente attualità. «L’intento – sostengono i componenti della Gioventù federalista europea – è quello di coinvolgere i cittadini in dibattitti dal carattere informale e spontaneo durante i quali esprimente il proprio pensiero senza alcuna mediazione.  La politica, soprattutto quella europea, non si può costringere entro i limiti formali dei centri del potere. La politica, quella vera, è discussione e confronto tra gente comune. Mai quanto oggi è presente nella percezione di sé e della propria comunità che hanno i cittadini, la consapevolezza di essere abbandonati dalla politica, dalle Istituzioni, da una classe dirigente esclusivamente autoreferenziale. Abbandonati a se stessi, diseredati, rinchiusi in una periferia fisica ma anche esistenziale. Ecco quindi la necessità di far ripartire il motore del cambiamento proprio da noi. Mai come negli ultimi cinque anni – proseguono – i cittadini chiedono maggiori informazioni e approfondimenti sugli affari europei e mai come ora in Italia si discute il futuro del progetto di integrazione europea». 
Comprendendo l’importanza di questo momento storico, la Gioventù federalista europea lancia una campagna su tutto il territorio nazionale, sfruttando una capillare struttura territoriale con lo scopo di ascoltare i cittadini facendoli riflettere sulle proposte federaliste attraverso un contatto diretto con essi.
Roberto Sommella è giornalista economico esperto di finanza pubblica e di politiche europee. Fondatore de «La Nuova Europa», è stato caposervizio della redazione economica dell'Ansa. Attualmente è direttore delle relazioni esterne Antitrust e opinionista per Corriere della Sera, Messaggero, Milano e Finanza, Unità.Tveuropaquotidiano.it




Antonio Argenziano, segretario nazionale della Gioventù federalista europea, è laureato in Storia, Antropologia e Religioni presso l'Università La Sapienza di Roma. Originario di Avellino, di stanza a Roma dal settembre 2011 entra in contatto con il Movimento federalista europeo nel dicembre 2012, iniziando subito l'attività di militante




Potrebbe interessarti: http://www.avellinotoday.it/economia/incontro-roberto-sommella-gioventu-federalista.html
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“Vogliamo una Repubblica democratica europea”






archivio IUniScuoLa


Sono passati 60 anni dal 25 marzo del 1957, il giorno dei Trattati di Roma che istituirono la Comunità Economica Europea, primo nucleo dell’Unione. E a distanza di 60 anni gli europeisti sono profigura di riferimento delnti a rilanciare – con una grande manifestazione a Roma, il 25 marzo – la prospettiva dell’unità europea dal punto di vista non solo economico ma anche politico. «Vogliamo una Repubblica democratica europea, con un governo indicato dai cittadini, che risponda al Parlamento» sintetizza Antonio Longo, direttore dell’Unità Europea, mensile del Movimento Federalista Europeo, e figura di riferimento dell’MFE in provincia.


«Il 25 marzo sta diventando una data importante nell’agenda politica europea: nel 60esimo anniversario dei Trattati di Roma c’è un movimento che rilancia la necessità di chiarire cosa intende fare l’Europa “da grande”» spiega Longo. «Dopo dieci anni di crisi economica, dopo la Brexit e l’avvio della presidenza Trump, l’Europa è chiamata oggi a dare una nuova risposta politica complessiva: deve avanzare, non rimanere ferma come è avvenuto negli ultimi 10 anni. Avanzare significa fare passi in avanti sulla politica estera, sulla Difesa comune, soprattutto sulle risorse fiscali proprie che sono necessarie per sostenere le politiche. Bene, ora i federalisti vogliono portare in piazza la gente per dire che esiste una opinione pubblica che vuole una Europa più unita e solidale, che presuppone il passaggio a una vera Federazione: dobbiamo andare oltre la sovranità sulla moneta, per condividere lasovranità su politica estera e difesa. Vogliamo mostrare, insomma, che sta nascendo un popolo europeo, anche in contrapposizione ai nazionalismi e ai populismi che vogliono invece erigere i muri e isolare i singoli Paesi. Vogliamo una Repubblica democratica europea, con un governo indicato dai cittadini, che risponda a un Parlamento eletto direttamente dai cittadini».


Longo sottolinea che la risposta deve essere istituzionale (con la piena democratizzazione delle istituzioni europee) ma anche incentrata su politiche ambientali, economiche: «Serve un grande new deal europeo su ambiente e ricerca, per una Europa che guardi al futuro. E insieme a sicurezza e a sviluppo, la terza parola necessaria è democrazia: la democrazia nazionale è oggi insufficiente a rispondere alle sfide di oggi, come risposta serve più democrazia nell’Unione».


Longo sottolinea un dato che è diventato sempre più chiaro: mai come nell’ultimo biennio alla dicotomia classica tra sinistra e destra si è sostituita quella tra europeisti e antieuropeisti. È una contrapposizione che ha visto la seconda componente – i «sovranisti» – divenire più forte e vincente. «Se stiamo al mondo politico è chiara la componente degli oppositori: la Lega Nord, il Movimento 5 Stelle e una parte della destra. Un fronte che risponde a parole d’ordine semplificate e inattuabili, pronunciate forse nella consapevolezza che non si tratti di proposte fattibili ma di strumenti elettorali. A partire dall’uscita dall’Euro: non si può uscire dalla seconda moneta al mondo, per ritrovarsi con una moneta esposta alle oscillazioni».


D’altra parte alla forza e capacità attrattiva delle forze populiste (o più genericamente euroscettiche) fa da contraltare la crisi evidente di molte delle principali forze europeiste di centrosinistra e centrodestra, della tradizione popolare e liberale e di quella socialdemocratica. «Il fronte europeista è oggi incerto: in Italia nel Pd si è ripreso a discutere di Europa, ma credo in modo confuso,anche  positivo che Renzi si sia esposto chiedendo delle primarie per designare il candidato socialista alla Presidenza Commissione Europea. Qualcuno inizia a capire che è ora di investire per creare veri partiti europei».


All’estero si attendono prove elettorali importanti… «Certamente interessante è la situazione della Francia, con un candidato europeista come Macron che cresce nei sondaggi e potrebbe essere lo sfidante di Marine Le Pen. È un dualismo che taglierebbe fuori le categorie di centrosinistra e centrodestra: la partita si giocherebbe per la prima volta tra europeisti e sovranisti, come preconizzava Spinelli nel manifesto Per un’Europa Libera e Unita.  E come è avvenuto anche in Austria, la scelta tra le due opzioni diventa chiara e necessaria: quando si pone la domanda al popolo, la gente accoglie il messaggio, riemerge la voglia di una Europa più forte».


C’è poi il caso della Germania, dove la scelta europeista è meno in discussione, ma in cui l’intera Europa si gioca molto sul piano delle scelte economiche… «Si voterà in autunno. Diventerà interessante una sfida con due campioni europeisti, certamente con scelte diverse dal punto di vista economico e del rigore. Ma se noi europeisti vinciamo nelle elezioni precedente, a que punto quelle tedesche non saranno elezioni drammatiche, ma tra due visioni simili: una più proieattata verso il rilancio, l’altra più orientata al risanamento».


Anche dalla provincia di Varese partiranno pullman diretti a Roma per la giornata del 25 marzo. Qui trovate varie informazioni sull’evento.


di Roberto Morandi roberto.morandi@varesenews


 

martedì 4 luglio 2017

A San Cesario di Lecce dal 6 all’8 luglio “Io non l’ho interrotta”, rassegna di comunicazione politica e giornalismo

venerdì 9 giugno 2017

May senza maggioranza ma non si dimette



Il partito conservatore della premier britannica Theresa May è primo in base allo spoglio parziale del voto, ma ha perso la maggioranza dei seggi in Parlamento: un dato che apre una fase di grande incertezza e solleva pesanti interrogativi su chi guiderà il Paese nei negoziati sulla Brexit e con quale mandato. La sterlina ha perso terreno nel timore che la leader conservatrice non riesca a formare un governo e sia costretta alle dimissioni, al termine di una campagna turbolenta, funestata da due attacchi terroristici.
Dopo la sua rielezione nel collegio di Maidenhead, popolato di pendolari, May ha detto che la Gran Bretagna “necessita un periodo di stabilità” mentre si prepara al complesso processo di uscita dell’Unione europea. La premier ha aggiunto che pur se il risultato definitivo non è ancora noto, il suo partito sembra aver vinto la maggioranza dei seggi ed “è il nostro compito garantire un periodo di stabilità”. Secondo l’editor politico della Bbc Laura Kuennsberg la premier non ha alcuna intenzione di lasciare Downing Street. Kuennsberg ha twittato che May vuole formare un governo sulla base del fatto che i Tories restano il maggior partito in termini di seggi e voti.
Ma il leader dell’opposizione di sinistra Jeremy Corbyn, il cui partito laburista partiva con uno svantaggio di 20 punti percentuali, ha invitato May a dimettersi, dicendo che “ha perso voti, perso sostegno e perso fiducia”.
Secondo la proiezione sui due terzi circa dei collegi scrutinati i Tories avrebbero 315 seggi, perdendone 12 rispetto al parlamento uscente, e ottenendone meno dei 326 che rappresentano la maggioranza alla Camera dei Comuni. I laburisti salirebbero a 261 seggi, in crescita di 31, concretizzando la possibilità di un “hung parliament”, un parlamento senza maggioranza, altra sorpresa della politica britannica dopo il referendum di giugno 2016 sulla Brexit.
May, 60enne figlia di un vicario, ora deve rispondere alle scomode domande sulla sua decisione di andare al voto con tre anni d’anticipo mettendo in pericolo la piccola ma solida maggioranza di 17 seggi del suo partito. La sterlina ha perso il due per cento sul dollaro mentre gli investitori si chiedono chi avrà il controllo della Brexit ora. Le prime pagine dei giornali rispecchiano il dramma: “La Gran Bretagna sul filo del rasoio” , “Mayhem”, un gioco di parole tra il cognome della premier e la parola che in inglese significa caos, e “Appesi a un filo”.
In una nottata che rischia di ridisegnare, ancora una volta, lo scenario politico britannico, gli euroscettici dell’UK Independence Party (UKIP), che due anni fa avevano il 12,5% e hanno guidato la campagna referendaria per la Brexit, rischiano di sparire. Gli europeisti liberaldemocratici, che hanno fatto campagna per un secondo referendum sulla Ue, vedrebbero un aumento dei loro seggi a


La premier: "Garantirò la stabilità". Corbyn: 'Si dimetta


12 da nove, ma l’ex leader Nick Clegg ha perso il seggio. Stessa sorte è toccata all’ex leader carismatico dello Scottish national Party, Alex Salmond: il suo partito nazionalista scozzese, oggi guidato dalla sua delfina Nicola Sturgeon, ha preso una batosta, perdendo 19 dei suoi 54 seggi a Westminster.
May, arrivata a Downing Street dopo il referendum sulla Brexit di giugno 2016, ha dato il via al processo formale di uscita dalla Ue il 29 marzo, promettendo di portare Londra fuori dal mercato unico e di tagliare l’immigrazione. Cercando di capitalizzare su una popolarità alle stelle, ha indetto le elezioni politiche anticipate qualche settimana dopo, chiedendo agli elettori un mandato forte per i negoziati sulla Brexit, che dovrebbero iniziare il 19 giugno.
Bruxelles sperava in un esito elettorale che potesse ammorbidire la linea del governo di Londra, ma la prospettiva di un parlamento senza maggioranza spaventa anche l’Europa. Dopo una campagna tiepida contro la Brexit, il Labour ha accettato l’uscita dalla Ue ma non vuole la “hard Brexit” propugnata da May e intende mantenere i legami economici con il Continente. Un mese fa il partito di Corbyn sembrava destinato alla disfatta, lacerato da divisioni interne e da rivolte ricorrenti contro il leader socialista considerato inadeguato. Ma un clamoroso errore di May in campagna (l’annuncio, poi ritirato, di una riforma delle cure per gli anziani che li penalizzava), una forte campagna porta a porta di Corbyn e gli attacchi terroristici, che hanno messo al centro del dibattito i sei anni di May da ministra degli Interni, hanno cambiato le carte in tavola.