venerdì 3 marzo 2017

I segni dei tempi: dal Veneto al Molise quale futuro per il regionalismo italiano?

Si narra nel Vangelo secondo Matteo (Mt, 16, 14) che i farisei si avvicinarono a Gesù di Nazareth “per metterlo alla prova e gli chiesero che mostrasse loro un segno dal cielo. Ma egli rispose loro: «Quando si fa sera, voi dite: “Bel tempo, perché il cielo rosseggia”; e al mattino: “Oggi burrasca, perché il cielo è rosso cupo”. Sapete dunque interpretare l’aspetto del cielo e non siete capaci di interpretare i segni dei tempi? Una generazione malvagia e adultera pretende un segno! Ma non le sarà dato alcun segno, se non il segno di Giona». Li lasciò e se ne andò”. Il brano di Matteo consegna agli uomini un richiamo metodologico universalmente valido, non solo riguardo alla grande questione cui era relativo, ma anche per considerare le “piccole” vicende in cui si dipana la vita degli ordinamenti giuridici. E’ quindi un richiamo utile anche per chiedersi come interpretare il destino del regionalismo italiano, dopo il fallimento, per effetto della bocciatura nel referendum confermativo, di un tentativo di riforma costituzionale che proprio nei limiti del Titolo V radicava una delle sue principali giustificazioni. Occorre cioè chiedersi, dopo che quella prospettiva si è spenta, quali segni si possono oggi cogliere nella vita dell’ordinamento per poter affrontare un problema che rimane aperto, cercando però di darne una realistica rappresentazione che tenga conto della situazione attuale. Chi scrive in passato aveva in più occasioni denunciato la grave situazione di un policentrismo anarchico, fondato su una cultura del veto piuttosto che su quella della costruzione del bene comune, che, anche a causa della mancanza di un’adeguata sede di raccordo politico, affliggeva il pluralismo istituzionale italiano. Oggi, tuttavia, soprattutto grazie all’evoluzione della giurisprudenza costituzionale, è difficile poter confermare, nei medesimi termini, quel disagio. Infatti, per effetto di oltre quindici anni di pronunce in via principale, su qualsiasi materia, anche le più particolari e intrecciate, come ad esempio, la “mobilità sostenibile”, a un attento legislatore statale o regionale molto difficilmente manca un termine di raffronto nella giurisprudenza costituzionale. In effetti, il contenzioso costituzionale si è sensibilmente ridotto (negli ultimi quattro anni si è scesi ad una media di circa 90 ricorsi all’anno e si tratta per circa due terzi di impugnative statali) e potrebbe ridursi ulteriormente se solo i legislatori prestassero più attenzione a quanto elaborato dalla giurisprudenza costituzionale. Inoltre, in qualsiasi materia regionale, qualora ricorra un serio ed effettivo interesse nazionale, al legislatore statale nemmeno manca, grazie all’istituto della cd. chiamata in sussidiarietà, la possibilità di un intervento a tutela dell’unità giuridica o economica dell’ordinamento. Infine, con la coraggiosa ed innovativa sentenza sulla cd. legge Madia la Corte costituzionale, sancendo l’applicazione anche al procedimento legislativo del meccanismo dell’intesa in caso di concorrenza di materie, ha con molta accortezza ridimensionato il limite di un impianto costituzionale che stabilisce, da un lato, un forte decentramento legislativo ma rimane privo, dall’altro, di un Senato delle autonomie. In termini coerenti con l’art. 5 Cost., la Corte, infatti, ha censurato il contenuto della legge delega per la mancata previsione dell’intesa in sede di attuazione della stessa, cioè nell’adozione dei decreti legislativi. In questi termini, per la prima volta la Corte ha dichiarato costituzionalmente necessario il raccordo nel procedimento di adozione di un atto legislativo (seppur non di una legge) e non di un atto amministrativo. Sebbene essa, nel caso deciso, si sia discostata dalla propria giurisprudenza solo con riferimento ai decreti legislativi e non al procedimento di formazione della legge, sembra difficile concludere che essa abbia voluto implicitamente escludere tale ipotesi. Il principio di leale collaborazione, infatti, assume pur sempre rango costituzionale, ed “essendo dunque esso in via potenziale condizionante anche per le leggi”, non appare convincente invocare la “tassatività” della disciplina costituzionale del procedimento legislativo per escludere la necessità dell’intesa anche in tale ipotesi di concorrenza di competenze statali e regionali. L’intesa imposta dalla sentenza n. 251/2016 non è infatti insuperabile da parte del Governo, per cui non sembra credibile sostenere che ad estendere la necessità dell’intesa anche per la legge ordinaria che interviene in una fattispecie di concorrenza di competenze si possa prefigurare, addirittura, uno “stravolgimento degli equilibri della forma di Stato”! Diversi argomenti portano chiaramente ad escludere questa apodittica conclusione. Innanzitutto si tratta, rispetto al parere già previsto in via ordinaria dall’art. 3 del d. lgs. n. 281/1997, di un aggravio procedimentale certamente meno impegnativo (l’intesa richiesta dalla sent. n. 251 del 2016 è infatti “debole”) di quello stabilito dall’art. 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001 attraverso la cd. Bicameralina (che pure costituisce diritto pienamente vigente, anche se inattuato) che richiede invece all’assemblea parlamentare una approvazione a maggioranza assoluta per superare il parere contrario della stessa... (segue)

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