martedì 27 settembre 2016

Siamo in guerra tra noi ed è colpa del ’68

Tutti contro tutti. Tutti a ritenersi incompresi, inascoltati e sconfitti. Tutti a puntare il dito contro padri, figli, nipoti. Che i Sessantottini si siano ‘accasati’ meglio, è fuor di dubbio. Però, il conflitto in atto ci consegna una lettura della realtà deprimente, perché la prima generazione persa - la mia - adesso è costretta a contemplare anche lo scontento dei propri figli assommando dispiacere a dispiacere


No, non è un pezzo sullo scontro tra Oriente ed Occidente, o meglio tra religioni e civiltà opposte (o presupposte tali) e neanche ho scritto un commento sul cambio di fronte bellico: dai carrarmati-con-missili della Cortina di Ferro alla diffusione molecolare di kamikaze del nuovo califfato.
Lo ben sapete tutti che, a scarsità di risorse, le organizzazioni vacillano e cadono in pezzi mentre s’innescano lotte per la sopravvivenza dei singoli alla deriva.
Vale per ogni consesso umano: dal partito politico al sindacato; dal luogo di lavoro al condominio; dalla bocciofila alla filodrammatica. Vale soprattutto, nelle società degli uomini, per le generazioni. La grandezza degli insiemi è ininfluente.
Darsi addosso tra generazioni è uno sport immarcescibile. Ogni nuova generazione ha il suo bersaglio preferito nelle coorti di chi lo ha preceduto.
Quando i tempi sono difficili — come gli attuali — i nemici allignano in più generazioni, sia ascendenti che discendenti. Tutte le generazioni comprese tra gli Alpha-boomer (i settanta-sessantenni di oggi) e la GenZ (i post Millennials) si sentono schiacciate e si lamentano con sempre più frequenza di aver perso le occasioni per colpa di quelli di prima, di quelli che hanno cominciato tutto, ovvero i Sessantottini.
Ciò è stato spiegato con semplicità in un molto condiviso editoriale de «Linkiesta», a firma del mio amico Bruno Giurato.
Io lo capisco perfettamente, Bruno, perché abbiamo vissuto le stesse sfighe, di ex giovani di ottime speranze, cui hanno inculcato il senso del dovere, della possibilità di migliorarsi attraverso lo studio ‘matto e disperato’ al fine di un lavoro qualificato in linea con i titoli e che invece sono rimasti schiacciati da questi falsi giovani ex rivoluzionari che hanno occupato tutti i posti al sole, hanno diffuso un modo di essere ed agire, da idrovore, cioè.
Siamo purtroppo — noi ragazzi del ‘riflusso’, come cantava Eugenio Finardi in “Cuba” — la prima delle generazioni cosiddette ‘perse’. Chi ci renderà merito, a noi che non apparteniamo alla Generazione Erasmus, che non siamo coetanei di Renzi&Boschi, che siamo troppo giovani per andare in pensione, troppo anziani per farci assumere se rimaniamo disoccupati o esodati? Che prima dei precari abbiamo studiato tanto per rimanere impiegatucci, o strappare anni di fuori ruolo e supplenze nelle scuole, magari sfiancarsi a prepararsi per dieci e dieci concorsi, arrivare sfiniti a chiedere una raccomandazione per vedersi riconosciuto il diritto alla sopravvivenza (dopo aver perso anche i genitori), o accettare di fare i ghost writer per qualche VIP/politico somaro, il contabile in qualche piccola azienda, il ragazzo di studio legale, il factotum per un notaio.
Indubbiamente, dopo di noi non è che si stia meglio. Anche i Millennials scalpitano perché trovano nella GenZ un manipolo di strafottenti piuttosto vuoti o quantomeno stitici di idee, volontà e creatività. E prima dei Millennials, i trentenni soffrono e soffriranno ancora e più di noi, se — come ha affermato il Direttore dell’INPS, Boeri —dovranno lavorare fino a 75 anni per una pensione da fame. A meno che non ci si butti in politica: nuovo ambito d’investimento sociale, come dimostrano tutte le nuove (e sciape) entrate nel nostro Parlamento.
Ma la guerra è guerra. Infatti, venerdì e sabato a Napoli si è tenuto un seminario sul riscatto dei ‘grandi vecchi’, ovverosia di studiosi e professori, i quali a venerande età (ovverosia intorno agli ottant’anni, cioè) ancora danno e possono dare alla cultura, alla scienza, alla società in genere. Non lo mettiamo in dubbio.
Tuttavia, come potete notare, il conflitto è diventato globale e trans-generazionale. Tutti contro tutti. Tutti a ritenersi incompresi, inascoltati e sconfitti. Tutti a puntare il dito contro padri, figli, nipoti.
Che i Sessantottini si siano ‘accasati’ meglio, è fuor di dubbio. Però, il conflitto in atto ci consegna una lettura della realtà deprimente, perché la prima generazione persa — la mia — adesso è costretta a contemplare anche lo scontento dei propri figli — Millennials e GenZ — assommando impotenza ad impotenza, dispiacere a dispiacere
LINK http://www.orticalab.it/Siamo-in-guerra-tra-noi-ed-e-colpa

Siamo in guerra tra noi ed è colpa del ’68

Tutti contro tutti. Tutti a ritenersi incompresi, inascoltati e sconfitti. Tutti a puntare il dito contro padri, figli, nipoti. Che i Sessantottini si siano ‘accasati’ meglio, è fuor di dubbio. Però, il conflitto in atto ci consegna una lettura della realtà deprimente, perché la prima generazione persa - la mia - adesso è costretta a contemplare anche lo scontento dei propri figli assommando dispiacere a dispiacere


No, non è un pezzo sullo scontro tra Oriente ed Occidente, o meglio tra religioni e civiltà opposte (o presupposte tali) e neanche ho scritto un commento sul cambio di fronte bellico: dai carrarmati-con-missili della Cortina di Ferro alla diffusione molecolare di kamikaze del nuovo califfato.
Lo ben sapete tutti che, a scarsità di risorse, le organizzazioni vacillano e cadono in pezzi mentre s’innescano lotte per la sopravvivenza dei singoli alla deriva.
Vale per ogni consesso umano: dal partito politico al sindacato; dal luogo di lavoro al condominio; dalla bocciofila alla filodrammatica. Vale soprattutto, nelle società degli uomini, per le generazioni. La grandezza degli insiemi è ininfluente.
Darsi addosso tra generazioni è uno sport immarcescibile. Ogni nuova generazione ha il suo bersaglio preferito nelle coorti di chi lo ha preceduto.
Quando i tempi sono difficili — come gli attuali — i nemici allignano in più generazioni, sia ascendenti che discendenti. Tutte le generazioni comprese tra gli Alpha-boomer (i settanta-sessantenni di oggi) e la GenZ (i post Millennials) si sentono schiacciate e si lamentano con sempre più frequenza di aver perso le occasioni per colpa di quelli di prima, di quelli che hanno cominciato tutto, ovvero i Sessantottini.
Ciò è stato spiegato con semplicità in un molto condiviso editoriale de «Linkiesta», a firma del mio amico Bruno Giurato.
Io lo capisco perfettamente, Bruno, perché abbiamo vissuto le stesse sfighe, di ex giovani di ottime speranze, cui hanno inculcato il senso del dovere, della possibilità di migliorarsi attraverso lo studio ‘matto e disperato’ al fine di un lavoro qualificato in linea con i titoli e che invece sono rimasti schiacciati da questi falsi giovani ex rivoluzionari che hanno occupato tutti i posti al sole, hanno diffuso un modo di essere ed agire, da idrovore, cioè.
Siamo purtroppo — noi ragazzi del ‘riflusso’, come cantava Eugenio Finardi in “Cuba” — la prima delle generazioni cosiddette ‘perse’. Chi ci renderà merito, a noi che non apparteniamo alla Generazione Erasmus, che non siamo coetanei di Renzi&Boschi, che siamo troppo giovani per andare in pensione, troppo anziani per farci assumere se rimaniamo disoccupati o esodati? Che prima dei precari abbiamo studiato tanto per rimanere impiegatucci, o strappare anni di fuori ruolo e supplenze nelle scuole, magari sfiancarsi a prepararsi per dieci e dieci concorsi, arrivare sfiniti a chiedere una raccomandazione per vedersi riconosciuto il diritto alla sopravvivenza (dopo aver perso anche i genitori), o accettare di fare i ghost writer per qualche VIP/politico somaro, il contabile in qualche piccola azienda, il ragazzo di studio legale, il factotum per un notaio.
Indubbiamente, dopo di noi non è che si stia meglio. Anche i Millennials scalpitano perché trovano nella GenZ un manipolo di strafottenti piuttosto vuoti o quantomeno stitici di idee, volontà e creatività. E prima dei Millennials, i trentenni soffrono e soffriranno ancora e più di noi, se — come ha affermato il Direttore dell’INPS, Boeri —dovranno lavorare fino a 75 anni per una pensione da fame. A meno che non ci si butti in politica: nuovo ambito d’investimento sociale, come dimostrano tutte le nuove (e sciape) entrate nel nostro Parlamento.
Ma la guerra è guerra. Infatti, venerdì e sabato a Napoli si è tenuto un seminario sul riscatto dei ‘grandi vecchi’, ovverosia di studiosi e professori, i quali a venerande età (ovverosia intorno agli ottant’anni, cioè) ancora danno e possono dare alla cultura, alla scienza, alla società in genere. Non lo mettiamo in dubbio.
Tuttavia, come potete notare, il conflitto è diventato globale e trans-generazionale. Tutti contro tutti. Tutti a ritenersi incompresi, inascoltati e sconfitti. Tutti a puntare il dito contro padri, figli, nipoti.
Che i Sessantottini si siano ‘accasati’ meglio, è fuor di dubbio. Però, il conflitto in atto ci consegna una lettura della realtà deprimente, perché la prima generazione persa — la mia — adesso è costretta a contemplare anche lo scontento dei propri figli — Millennials e GenZ — assommando impotenza ad impotenza, dispiacere a dispiacere
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lunedì 26 settembre 2016

Centri Socio-Ricreativi : il Forum by e-mail del COORDINAMENTO PARTECIPANTI CENTRI ANZIANI E ORTISTI


< Centri Socio-Ricreativi  > TU COSA NE PENSI?  Dillo a SENIOR IN PIAZZA  info 3883642614 oppure scrivere a  dinodono1@gmail.com

I Centri Socio-Ricreativi di promozione sociale del Comune di Milano sono aperti a tutti i cittadini che hanno compiuto i 55 anni di età.

Si accede tramite iscrizione presso la Segreteria del Centro prescelto con sottoscrizione di tessera  annuale e versamento della quota associativa di €10.

Le iscrizioni sono accolte preferibilmente dal 1 gennaio al 31 marzo, ma sono consentite durante tutto l’anno. Con il versamento della quota associativa il cittadino diviene socio del Centro prescelto con diritto di voto nelle assemblee convocate dal Comitato di Gestione. La tessera della Rete dei Centri Socio Ricreativi Culturali consente tuttavia di accedere a tutti i 29 Centri della Rete del Comune di Milano dislocati nelle 9 Zone della città. E’ infatti possibile partecipare a tutte le loro attività, nel rispetto delle norme vigenti e facendone esplicita richiesta al Comitato di Gestione del Centro che deciderà in merito, tenendo conto delle caratteristiche proprie di ogni singolo Centro e nel rispetto delle norme sulla sicurezza.

I Centri sono aperti tutto l'anno e stabiliscono i loro orari in modo indipendente, anche se le iniziative che sono progettate, condotte e coordinate da operatori culturali del Comune, si svolgono prevalentemente nel pomeriggio. Il ventaglio dell'offerta è molto ampio:

  • momenti ricreativi: ballo, giochi, intrattenimenti musicali, ecc.
  • eventi culturali e informazione: gite, conferenze, visite guidate, spettacoli teatrali e cinematografici a condizioni molto vantaggiose
  • attività sportive: corsi di ginnastica dolce, yoga, campi di bocce, ecc.

Inoltre si tengono eventi particolari a tema in diversi periodi dell'anno e in occasione di varie ricorrenze.

La sede centrale si trova in via Statuto 17 - tel. 02 88463121: fornisce informazioni sulle iniziative e le attività dei Centri, dalle 9.00 alle 12.00 e dalle 14.00 alle 16.00.

venerdì 2 settembre 2016

Un requiem per il federalismo fiscale

Attraverso alcuni anni di perpetrata omissione di un serio esercizio centrale del ruolo di coordinamento della finanza pubblica in Italia si è giunti al duplice risultato di una larvata destituzione della democrazia locale e di un progressivo smantellamento dello stato sociale. Si tratta di un fenomeno che sembra rimasto, data forse anche la complessità tecnica che ne caratterizza i vari fattori, nell’ombra rispetto all’attenzione che viene solitamente data ad altri temi: è opportuno quindi cercare di metterlo in luce. L’evoluzione che si è verificata nel sistema di finanza locale negli ultimi anni ha, infatti, delineato un assetto che, per stratificazioni successive e per complicazioni interattive, ha profondamente alterato i principi del federalismo fiscale municipale. L’esito della crisi finanziaria, infatti, non è stato, in Italia, semplicemente un processo di ricentralizzazione di funzioni o di risorse, che poteva anche trovare una qualche giustificazione in ragione dell’emergenza, ma una profonda e ingiustificata alterazione dei principi fondamentali che da sempre ed ovunque riguardano l’autonomia fiscale degli enti territoriali. In Italia negli ultimi anni e quindi nell’assetto attuale, si è quindi determinato un quadro di finanza locale insostenibile, fonte di inaudite complicazioni e di gravissime alterazioni dei presupposti che permettono l’ordinato sviluppo del sistema fiscale e delle stesse autonomie locali. La Copaff (Commissione tecnica paritetica per l’attuazione del federalismo fiscale) ha, a gennaio 2014, approvato un rapporto sulla distribuzione delle misure di finanza pubblica, che certifica per la prima volta e in modo condiviso tra tutti i livelli di governo, la distribuzione dei tagli delle ultime manovre di finanza pubblica. Dal Rapporto emerge con evidenza che i tagli si sono scaricati prevalentemente sugli enti territoriali. Si tratta di un dato estremamente importante che trova conferma in quanto ormai in più occasioni affermato dalla Corte dei Conti e recentemente nella delibera del 29 dicembre 2014, Relazione sulla gestione finanziaria degli enti territoriali, dove viene chiaramente precisato che al comparto degli enti territoriali è stato richiesto, nelle manovre degli ultimi anni, “uno sforzo di risanamento non proporzionato all'entità delle loro risorse”, in base a scelte andate “a vantaggio degli altri comparti che compongono il conto economico consolidato delle amministrazioni pubbliche.” Ed ha quindi auspicato (ma non è avvenuto) che “futuri interventi di contenimento della spesa assicurino mezzi di copertura finanziaria in grado di salvaguardare il corretto adempimento dei livelli essenziali delle prestazioni nonché delle funzioni fondamentali inerenti ai diritti civili e sociali”. In effetti, nello sviluppo normativo della legislazione statale degli ultimi anni è evidente un fenomeno di abnorme deresponsabilizzazione dello Stato, che, chiamato ad assumersi la responsabilità di una riduzione dei Lea a seguito del venir meno delle risorse disponibili, ha scelto invece la strada di lasciare, da un lato, invariati i Livelli essenziali delle prestazioni dei diritti sociali (Lea e Lep), o peggio ancora di nemmeno definirli in molte materie come l’assistenza sociale, e dall’altro di perpetrare un sistema di tagli lineari, in ciò venendo meno ad un corretto esercizio di quella funzione di coordinamento della finanza pubblica che è invece richiesto dall’art.117, III, comma. Se quindi  a metà del 2010 un rapporto al Parlamento italiano della stessa Copaff si poteva intitolare L’albero storto, con riferimento alle disfunzioni e alla deresponsabilizzazione di molti enti territoriali, oggi è possibile rovesciare la considerazione e parlare dell’albero storto per definire la situazione della finanza statale, che è rimasta in gran parte esente dal processo di spending review: i lavori sulla revisione della spesa centrale statale sono stati insabbiati e nemmeno pubblicati, né sono stati elaborati meccanismi di definizione della spesa giustificata analoghi ai costi e fabbisogni standard introdotti invece per gli enti territoriali. Da questo punto di vista, la deresponsabilizzazione maggiore è oggi ravvisabile nel modo con cui il governo centrale gestisce la finanza pubblica: oltre a quanto già detto sulla mancata definizione o aggiornamento di Lea e Lep, basti pensare a casi emblematici di riduzione delle imposte statali finanziati in gran parte con tagli draconiani agli enti territoriali. Il governo centrale si assume il merito e la popolarità di aver ridotto le imposte, mentre sugli enti territoriali scarica la responsabilità (in tutti quei casi in cui non vi sono sprechi commisurati all’entità del taglio subito) di ridurre i servizi sociali o di aumentare la pressione fiscale locale... (segue)
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