Con molto denaro a disposizione e staff limitati, questi operatori privilegiano i target di grandissime dimensioni
di Bernardo Bortolotti, direttore del Sovereign Investment Lab della Bocconi
È ancora fresca nella nostra memoria l’immagine del premier Enrico Letta che sventola soddisfatto l’assegno da cinquecento milioni di euro di ritorno dalla sua missione in Kuwait. Si trattava in realtà di un magro bottino, visto che quella cifra rappresenta ciò che i fondi sovrani del Golfo spendono mediamente in una singola operazione, non per un intero paese. Al di là dei fatti di cronaca, l’Italia è certamente fanalino di coda nella classifica degli investimenti dei fondi sovrani in Europa. Secondo i dati del Sovereign investment lab, fino ad ora sono state realizzate operazioni per un controvalore di solo 5,4 miliardi di euro, contro i 25,2 della Germania, i 21,3 della Francia e i 13,3 della Spagna.
Una possibile strategia è selezionare una serie di imprese di medie dimensioni, leader in nicchie di mercato e quindi già orientate all’export, che possano crescere ulteriormente in sinergia con il fondo sovrano investitore. Sfruttando il network del fondo, l’impresa italiana ottiene, assieme ai capitali freschi, accesso a nuovi mercati di sbocco e un percorso di crescita. I grandi fondi sovrani cinesi e del sud-est asiatico sembrano particolarmente adatti a svolgere questo ruolo di partner strategico.
Che cosa spiega questo ritardo? Certamente i soliti ostacoli di natura istituzionale, i costi della burocrazia, l’incertezza del diritto e tutti gli altri fattori che frenano gli investimenti diretti dall’estero. Esiste però una barriera specifica che è rilevante nel caso dei fondi sovrani: la dimensione delle nostre imprese, troppo piccole per apparire nei loro radar. Per una ragione banale: con ingenti risorse finanziarie (oltre 3.500 miliardi di dollari in gestione) e uno staff limitato, i fondi tendono a concentrarsi su pochi dossier, anche per risparmiare costi di gestione e i costi fissi della due diligence. Non a caso, non appena la dimensione dei nostri target supera una certa soglia, ritroviamo tutti i principali sovrani anche in Italia. Sono, infatti, azionisti importanti nelle nostre (poche) grandi aziende (Eni, Finmeccanica, Mediaset), nelle maggiori banche (Unicredit) e soci di maggioranza e promotori di alcuni dei più grandi progetti di sviluppo immobiliare (Porta Nuova a Milano e Costa Smeralda).
Essendo poche le grandi imprese, i fondi sovrani sono poco presenti. E la loro assenza è per certi versi paradossale dato che la valutazione dei nostri asset è oggi ai minimi storici e tante imprese, strette dalla morsa del credito, faticano a reperire capitale freschi. Chi conosce i fondi sovrani sa quanto apprezzano i marchi delle nostre imprese e sa anche che in questa fase di incertezza stanno valutando opportunità anche nei mercati delle economie mature. L’interesse potenziale c’è, ma per aprire il canale dell’investimento è fondamentale abbattere la barriera dimensionale e individuare progetti di scala adeguata.
Una possibile strategia è selezionare una serie di imprese di medie dimensioni, leader in nicchie di mercato e quindi già orientate all’export, che possano crescere ulteriormente in sinergia con il fondo sovrano investitore. Sfruttando il network del fondo, l’impresa italiana ottiene, assieme ai capitali freschi, accesso a nuovi mercati di sbocco e un percorso di crescita. I grandi fondi sovrani cinesi e del sud-est asiatico sembrano particolarmente adatti a svolgere questo ruolo di partner strategico.
Un altro strumento da considerare è il fondo dedicato ad aziende italiane ad elevato potenziale di crescita finanziato da un consorzio di fondi sovrani e altri investitori istituzionali di lungo termine. Attraverso questo veicolo, i fondi sovrani e gli altri soggetti che partecipano alla joint-venture realizzano investimenti ingenti sul nostro mercato mantenendo una buona diversificazione del rischio. Non da ultimo, utilizzando la formula dell’investimento indiretto, mitigano quei rischi di interferenza politica che spesso hanno ostacolato l’investimento cross-border dai paesi emergenti. Un doppio dividendo, economico e politico.
Fonte il Quotidiano della Bocconi
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