venerdì 22 gennaio 2016

La giostra (dei candidati)

In piena campagna elettorale, sulla giostra dei candidati manca ancora qualcuno che arriverà non appena il burattinaio” avrà deciso quali marionette utilizzare.
I candidati si spendono all’unisono,  bilanciando i giri delle figure retoriche,  ora con vestiti “casual” sul trattore rosso, adatto ad una gita nelle campagne milanesi,  con una maglietta “green” e slogan a favore del recupero della Milano rurale;   ora sulla carrozza con “smoking e cilindro” e tanto di “cocchiere” devoto all’aristocrazia milanese sempre pronta ad organizzare una festa in favore dei poveri,  con tanto di servizio al tavolo e paparazzi pronti ad immortalare il candidato con il vassoio in mano;   poi di corsa per sedersi sul romantico cavallo “ a mò “ di cavaliere senza macchia e senza paura,   pronto a battersi a favore delle nobili cause,   fino alla dissacrante discesa “agli inferi” alla ricerca di un drago da uccidere negli androni delle case popolari.
Trasudano umanità,  redenzione,  passione per le umane verità,  indignazione davanti al degrado delle periferie, sicurezza in mezzo alla povera gente,  disinvoltura davanti ad un microfono.
“Stanchi” , corrono a rinfrancarsi in una “location” dove ritrovare la serenità, circondati dI bella gente pronta a rincuorarli con gli slogan più appropriati e le frasi di rito, strette di mano e sorrisi.
Domina la satira del conformismo nelle loro figure, la distanza che essi stessi non riescono a vedere perché ciechi di retorica,  sazi di frasi fatte come “ la coscienza democratica ”, “ la consapevolezza della sofferenza altrui ”,  “ la lotta al degrado ”,  “ la sicurezza nei quartieri periferici ”,  “ meno immigrati  ,  “ più posti di lavoro  e via dicendo.
Niente di nuovo,  niente di vecchio,  la noia assoluta,  assistiamo storditi alla rotazione della giostra facendo “selfie” al passaggio del candidato preferito,  cliccando i tanti “mi piace” secondo il livello di stress personale,  convinti di essere i protagonisti del presente, del passato e del futuro salvo la mancanza “del segnale” oramai divenuta insopportabile.
L’amara verità di ciascuno contrapposta a una “società dominante” , a una  “classe politica”  inadeguata e virtuale,   individualista, spesso auto celebrativa sui pulpiti delle conventions elettorali e negli  #astag .
Quante azioni post elettorali faranno, soprattutto i perdenti ?
Quanti di Loro sapranno impegnarsi nel perseguire i decantati proclami ?
Quanti useranno la loro capacità e la loro esperienza per migliorare la vita della gente ?
Sapranno realizzare l’ideale urlato dai microfoni durante la campagna elettorale ?
Li vedremo ancora servire i poveri con tanta convinzione e devozione essi stessi perdenti ?
Vedremo ancora “i big” nelle periferie spendersi per progettare “ la grande bellezza “ ?
“La signorìa scende per le strade perché è rimasta senza servitù, sa dove andare a cercar ristoro, "all’ora del desìo" volge le spalle e si ritira nei bastioni,  le luci illuminano il selciato,  l’anatra è servita sulla grande tavola con del buon vino,  il camino và scoppiettando,  lieta è la compagnia di un rosolio e di una buona lettura,  tutto sembra andare per il meglio, a Sant’Ambrogio scocca “l’ora del sidereo”… è notte… sogni d’oro.

La giostra (dei candidati) | e-participation ed eventi a Milano e sua area metropolitana: cittadini e amministratori assieme per una citta' partecipata

domenica 17 gennaio 2016

Restiamo un Paese di emigranti, +64mila in un anno in Gran Bretagna


L’ufficio di statistica britannico ha diffuso ieri i numeri sull’immigrazione nel paese . Il dato è semplice e banale: nell’anno che va dal marzo 2014 al marzo 2015 il governo conservatore britannico aveva previsto una quota di ingressi di 100mila persone e, invece, ne sono entrate 300mila. Tre volte tante. Due terzi degli immigrati sono persone con un lavoro o in cerca di occupazione, un quinto sono studenti. La larga maggioranza viene dall’Europa, al primo posto rumeni e polacchi, poi con 64mila unità, gli italiani. Il dato fa riferimento alle persone che hanno completato l’iter di registrazione e l’ottenimento di un numero di National Insurance (l’equivalente, in termini di identificazione della persona, del nostro codice fiscale). Il dato insomma non riguarda gli ingressi ma le persone stabilizzate e non è quindi preciso se parliamo di flussi migratori.
Il ministro dell’immigrazione conservatore James Brokenshire ha spiegato che i numeri sono “deludenti” e ribadito che l’impegno del governo è ridurre i flussi in entrata. Eppure, dopo una legislatura di governo Cameron l’immigrazione tocca livelli record (pari all’anno di boom 2005) e l’emigrazione – le persone che tornano a casa – continua invece a scendere.
Dai dati diffusi dal bollettino di statistica britannico si evincono due cose. Innanzitutto nessun governo conservatore è in grado, come nessun altro governo, di fermare l’immigrazione. Nemmeno quella economica – che i numeri diffusi riguardano quella e non le richieste di asilo. Qualsiasi promessa facciano Cameron, Farage, Le Pen o Salvini, la questione migrazioni resta sul piatto, è un grande tema difficile da gestire, che pone interrogativi e sfide, ma non si cancella con uno slogan populista.
La seconda questione riguarda i 64mila italiani. Si tratta di un dato enorme che evidenzia una tendenza costante degli ultimi anni. Il rapporto “Italiani nel mondo” 2014 della fondazione Migrantes rileva che nel 2013 (ultimi dati disponibili) gli italiani trasferitisi all’estero erano 94.126 italiani – nel 2012 erano 78.941 – una variazione in un anno del +16,1%. La Gran Bretagna era il primo paese di destinazione e contava 13mila presenze. Sono passati due anni e, sebbene le statistiche non siano immediatamente confrontabili tra loro, possiamo senza meno dire che i flussi in uscita dal Paese sono ancora in aumento. Ovvero, l’Italia resta un Paese di emigrazione.
Che si tratti di giovani laureati e professionisti del nord ovest in cerca di un lavoro e di retribuzioni adeguate alla loro formazione – cosa che in Italia non trovano – o di persone che cercano un lavoro qualsiasi perché in Italia non ne hanno, o ancora di persone che sfruttano la lunga catena migratoria italiana, magari facendosi chiamare dai loro familiari, il dato è quello. Nel 2011 i residenti all’estero erano 4 milioni 100mila persone e a fine 2013 poco meno di 4 milioni e 500mila. Stando alle statistiche britanniche il numero cresce ancora.
Chissà se presto Nigel Farage comincerà a prendersela, oltre che con i famigerati idraulici polacchi, con i camerieri (o gli ingegneri) italiani. E che presto, sui manifesti sui muri britannici, qualche partito di destra non cominci a dipingere gli italiani come Salvini&Company oggi dipingono i rifugiati e gli immigrati. Più di qualche decennio fa, quando gli italiani emigravano a milioni, li dipingevano come nelle vignette qui sotto.

lunedì 11 gennaio 2016

Palpeggiamenti di massa a Colonia



Nella notte di Capodanno davanti al bel Duomo gotico di Colonia, unico monumento di tutta la città salvato dai bombardamenti bellici, un cospicuo numero (forse mille) di nordafricani e arabi si è avventato sulle donne tedesche sottoponendole ad atti lubrichi e in qualche caso a tentativi di stupro, più spesso a furti di denaro. Così si è appreso da centinaia e più di denunce recapitate alla polizia nei giorni seguenti. La stessa polizia aveva cercato di far passare le cose senza troppa pubblicità ma lo scandalo si è gonfiato come un’onda marina e ha travolto rapidamente anche il capo della polizia di Colonia e tutti quanti coloro che tentavano di minimizzare. Lo scandalo divenuto internazionale ha movimentato il mondo femminile e anche la sua ala femminista al punto che la signora Merkel ha dovuto intervenire e persino, per quanto riguarda il nostro paese, è intervenuta la signora Boldrini, presidentessa della Camera, che ha deprecato l’episodio seppur degradandolo a mancanza di rispetto per le donne. Poichè intanto da altre città della Germania e non solo provenivano analoghe e numerose denunce, tutto un fronte bonario e buonista che tendeva ad accogliere tutti i migranti con grande generosità si è bloccato se non addirittura capovolto: sembrerebbe che si sia cominciato a capire che cosa vorrebbe dire in Europa l’inserimento di alcuni milioni di migranti islamici con i loro costumi e principi nei confronti delle donne e della moderna vita che si svolge nei nostri paesi.
Tra i fermati dalla polizia, per il momento ancora pochi, un buon numero di richiedenti asilo anticipatori di quella immensa colonna ormai di milioni di persone (si parla di 7 milioni) provenienti dall’Iraq e dalla Siria e poi da tutti i paesi arabi e africani infestati da dittatori violenti e da guerre intestine incontrollabili quanto feroci.
La reazione delle donne europee, non solo delle donne tedesche, è stata unanime e decisa, esse, militanti o meno, sanno di aver conquistato la loro libertà da poco più di un secolo, forse due, e istintivamente non sono disposte a perderla anche perché la tradizionale struttura familiare che proteggeva nel suo alveo le figure più deboli, donne e bambini, è quasi scomparsa e le donne vivono in Europa una vita autonoma che l’organizzazione sociale nel suo complesso garantisce. D’altronde nei fatti di Colonia non sono segnalate reazioni anche marginali di maschi tedeschi perché le donne agivano senza la preoccupazione di essere protette.
Ora si annuncia, non solo in Germania ma in tutta Europa, il Carnevale con le sue feste in piazza e la sua tradizionale libertà di comportamenti. Questo genera già molte preoccupazioni e le dichiarazioni dei politici uomini ma soprattutto donne segnano un cambiamento di clima sociale, non solo nei paesi dell’esteuropeo ma in tutta l’Europa e persino in Italia dove, si noti bene, il Papa su questo argomento non ha detto una sola parola quasi ripiegando rispetto a posizioni precedenti.

Saranno dunque le donne a salvare la nostra civiltà e i nostri costumi liberali? È possibile, forse probabile, certamente auspicabile.

di Giacomo Properzj

domenica 3 gennaio 2016

Dollaro forte e euro debole porteranno al collasso


Il debito mondiale in dollari è a rischio di implosione. Per evitare la 
depressione la Fed dovrà riallineare la politica monetaria a quella della Bce

Gli eventi economici più significativi del 2015, a nostro parere, sono stati due: il crollo del prezzo del petrolio e il rafforzamento del dollaro accompagnato dalla svalutazione dell’euro. Questi fenomeni, strettamente collegati, perdureranno per quasi tutto il 2016.
La discesa del prezzo della più importante fonte energetica, del 70% rispetto all’estate del 2014 e al di sotto di $40 è l’epitome di un’imminente depressione iniziata come recessione nel 2008 che, non essendosi mai risolta, sta degenerando nella sua forma più estrema. Insieme a quello del petrolio c’è stato il tracollo di tutte le materie prime, tipico, appunto, del fenomeno depressivo. La situazione della Glencore International, il colosso minerario che lo scorso settembre è arrivato a perdere il 30% in una sola seduta, esemplifica bene la situazione. I principali indicatori dei trasporti delle materie, dal Baltic Dry Index, al Dow Jones Transportation Average, rispettivamente l’indice dei costi di trasporto merci e l’indice del prezzo medio di borsa delle principali società di trasporto, sono ai livelli più bassi degli ultimi trentanni. Economie come Canada, Australia e Brasile qualche anno fa in salute, tutte dipendenti dalle esportazioni di materie prime, sono entrate in recessione. In questo contesto l’unica consolazione è la deflazione dei prezzi che aumenta il potere d’acquisto dei consumatori. L’aspetto negativo è invece, per chi produce, la deflazione del debito: infatti quando l’attività produttiva cala, il debito aumenta e il suo pagamento diventa problematico. La deflazione del debito si sta aggravando a causa della dinamica del rapporto tra dollaro e euro, preannunciando una prossima insolvenza sistemica.
Il dollaro è valutato rispetto a un paniere di valute in cui l’euro rappresenta il 56% e pertanto qualunque cosa accade all’euro si ripercuote immediatamente sul dollaro e dal dollaro su tutto il sistema in quanto è la valuta di riserva mondiale. La maggior parte dei paesi, infatti, risparmia o si indebita principalmente in questa valuta. Il trend del loro rapporto, salvo brevi momenti, è iniziato a deteriorarsi nel giugno 2014, quando la BCE per la prima volta ha fissato i tassi di interesse a a livello negativo. Prima, il differenziale tra euro e dollaro era dello 0,25 % (il dollaro rendeva lo 0,25%, mentre l’euro rendeva zero). Ma tale spread non era ancora sufficiente a far involare in massa i capitali europei verso il dollaro. Non appena la Bce ha spinto i tassi sempre più in zona negativa e il differenziale con il dollaro è arrivato allo 0.55%, parcheggiare denaro nell’euro è costato sempre di più e il dollaro è diventato valuta rifugio. Ora qual è il problema? Il problema è che la Federal Reserve mantenendo dal 2008 i tassi praticamente a zero ha incentivato l’indebitamento in dollari. Su ogni 100 dollari presi in prestito pagando un interesse di solo 0.25, si poteva, investendo ad esempio nel real brasiliano, guadagnare la bellezza di 9.75 dollari cioè l’11%. Era logico che la maggior parte dei paesi, in particolare quelli emergenti, si indebitasse a livelli record in un dollaro a buon mercato per acquistare valute a rendimento elevato. E così si è sviluppato il carry trade globale sul dollaro arrivato oggi a superare $9 trilioni (un valore pari quasi al prodotto lordo cinese). Il carry trade, ovviamente, ha funzionato finché il dollaro è rimasto stabile e a buon prezzo. Ma a partire dall’estate del 2014, dopo la svalutazione dell’euro, l’apprezzamento del dollaro ha trasformato il carry trade in una trappola. Il valore del debito in dollari è di colpo aumentato per tutti. Il caso più eclatante è quello del real brasiliano. Dall’inizio del 2015, si è svalutato di un incredibile 40% rispetto al dollaro e questo significa che per le società brasiliane indebitate in dollari, il debito è aumentato del 40%. In generale, tutte le valute si sono svalutate rispetto alla moneta di riserva: il peso colombiano del 30%; il dollaro canadese del 15%; la corona norvegese del 18%; lo yen giapponese del 25%. Per questi paesi, dunque, il debito in dollari è aumentato nella stessa misura della svalutazione. Non è una coincidenza, inoltre, che il prezzi del petrolio, delle materie prime e delle azioni dei paesi emergenti siano andati al tappeto proprio nel momento dell’apprezzamento del dollaro. Contemporaneamente si è verificato il crollo dei bond energetici e delle obbligazioni societarie statunitensi. Dunque dollaro forte e euro debole hanno approfondito la deflazione globale.
Ora cosa succederebbe se entro il 2016 la Federal Reserve, aumentasse i tassi dall’attuale 0.50% all’1.50%, cioè di ben tre volte, come promesso nel mese dicembre? Innanzi tutto si verificherebbe un’ondata di default dei paesi emergenti indebitati in dollari con ramificazioni globali e il dollaro si apprezzerebbe ancora di più (la corsa al dollaro per pagare i debiti lo rafforzerebbe). Inoltre diventerebbe ancora più difficile per le società americane esportare, i loro profitti si ridurrebbero e i corsi di borsa precipiterebbero. Non sarebbero più sufficienti i buyback azionari (il riacquisto di azioni proprie) per mantenere artificialmente alti i corsi e non si potrebbero escludere, come nel 2008, crolli di borsa fino al 50%.
Questo è il motivo per cui, secondo noi, la Fed nel 2016 non alzerà ulteriormente i tassi. Ma poco importa, perché il dollaro si apprezzerà ugualmente in quanto la Bce, con il riacutizzarsi della crisi europea, svaluterà aggressivamente l’euro provocando una nuova e più intensa fuga di capitali verso il dollaro. Rivalutatosi sempre di più, i prezzi delle materie prime potrebbero anche scendere sotto del livello del 2015, la deflazione si approfondirebbe trasformandosi in depressione. A quel punto, nella seconda metà del 2016, per evitare ondate di bancarotte all’interno e l’implosione del debito ai paesi emergenti, la Fed, sarebbe costretta a riallineare la sua politica monetaria a quella della Bce e invece di alzare i tassi li riabbasserebbe per creare un nuovo e gigantesco quantitative easing con lo scopo di inflazionare il dollaro e evitare la depressione globale. Solo allora potrebbe cominciare la fase rialzista delle materie prime. Non per la ripresa economica mondiale ma perché diventerebbero beni rifugio per i capitali scampati al collasso valutario generale. Insomma, si preparano tempi biblici.

sabato 2 gennaio 2016

Nessuno si occupa degli over 30 senza un lavoro

HO 33 anni, due lauree con ottimi voti, parlo 3 lingue straniere, varie competenze eppure i miei cv passano sempre attraverso lo stesso iter: inoltro candidatura, contatto dei recruiter e stessa identica domanda: «Ma Lei quanti anni ha?». Alla mia risposta, 33, mi si risponde con un sonoro: «Ah, ci dispiace, Lei è ormai fuori dal mercato a quest’età!». Ho aspettato che lo Stato tutelasse gli over 30 ma il tempo passa e ad oggi mi ritrovo con un pugno di mosche in mano. Chiara

SE UNO ha 33 anni è troppo vecchio per rientrare nella categoria dei giovani precari e partecipare a bandi e concorsi riservati ai giovani. Però è troppo giovane per ambire ad un lavoro, troppo giovane per potersi considerare esperto. Insomma, c’è una generazione in Italia completamente dimenticata e in parte perduta. È la generazione dei 30-34enni: non giovani per l’anagrafe e per le norme sul lavoro, non ufficialmente neo laureati, ma oggi del tutto assimilabili ad essi riguardo alle difficili condizioni alle quali si affacciano al mercato del lavoro. Sei-sette lunghi anni di briciole, fra tirocini, sostituzioni e corsi di formazione. Insomma, poco o nulla che oggi possa essere speso in un curriculum vincente. E domani? All’orizzonte non c’è nulla di buono. Le esigenze, o per meglio dire l’intera vita di un 35enne, sono certamente differenti da quella di un over 50: perché allora non creare politiche strutturali ad hoc, distinte ad esempio per over 35, over 45, over 55?
laura.fasano@ilgiorno.net
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